Tennis e televisione: un ossimoro che attira

Tennis e televisione: un ossimoro che attira

Tennis e televisione: un ossimoro che attira

La giornalista Michela Curcio analizza il filo che lega il piccolo schermo al tennis

Uccidere il silenzio: questa, in teoria, è la prima regola da seguire in televisione. Regola che non vale, però, per il tennis che viene trasmesso sul piccolo schermo. Un esempio su tutti: c’è un momento, prima di tirare una seconda di servizio, in cui tacere serve a capire in che modo esattamente si sente un giocatore. Sarà arrabbiato? Sarà spaventato? Saprà essere glaciale? In quell’attimo perdersi in commenti tecnici sarebbe superfluo. Meglio sarebbe ascoltare i suoni che provengono dal campo: il rumore dell’aria che si sposta nel lancio di palla, il rimbalzo che suggerisce a che velocità si muove il colpo, il nastro appena sfiorato o che ferma la traiettoria di un possibile ace, l’urlo di disperazione di chi commette un doppio fallo o la scarica d’adrenalina di chi si è tirato fuori dalle sabbie mobili.

File:Paris-FR-75-open de tennis-2018-Roland Garros-stade Lenglen-caméra  telévision-08.jpg - Wikimedia Commons

Tennis e televisione: un ossimoro. Come spiegare a non si trova sugli spalti dell’Arthur Ashe, della Melbourne Arena, del Philippe Chatrier o del Centrale di Wimbledon che chiunque – anche il più arrogante di tutti – è in grado, per paura di vincere, di perdere una finale Slam anche trovandosi in vantaggio di due set e un break? Per esempio nel calcio non avviene spesso. Intendiamoci, anche il Milan nel 2005 regalò una Champions League al Liverpool dopo aver chiuso il primo tempo in vantaggio per 3-0. Anche il Bayern Monaco nel 1999 consegnò la Coppa dalle grandi orecchie al Manchester United al termine di una partita dominata per novantuno minuti su novantatré. Ma nel calcio non succede mai che una squadra che segna cinque gol finisca per tornare a casa senza i tre punti. Nel tennis, invece, accade. Più spesso di quanto si possa pensare. E nel dopo-match chi in televisione cerca di trovare un senso a quello che è contemporaneamente un dramma e un miracolo deve saper conciliare un’implacabile analisi tecnica con il coraggio di capire il dolore di chi ha perso senza sminuire i meriti di chi ha vinto.

Proprio per questo il commentatore televisivo che si sforza di spiegare sia le imprese di Federer, Nadal e Djokovic che quelle dei futuri raccoglitori di testimone (citati senza un ordine particolare: Thiem, Zverev, Tsitsipas, Medvedev, Rublev, Sinner, Auger-Aliassime, Shapovalov, Kyrgios, De Minaur, Khachanov, Hurkacz, Humbert e tanti altri), prima di tutto deve essere empatico. Deve entrare nella testa di ragazzi viziati dalla vita e che proprio per questo devono essere compresi in tutti i loro sbalzi d’umore, le loro sensibilità e i loro tratti distintivi in campo. Il tennis è uno sport così psicologico che chi si è dimenticato di cosa vuol dire avere 20 anni non dovrebbe raccontare.

Poi, il cronista che vuole raccontare al pubblico a casa cosa vuol dire avere successo impugnando la racchetta deve essere competente. In quale sport è possibile ripetere il servizio due volte? Immaginatevi se un calciatore potesse ripetere un rigore che ha sbagliato. Ancora: in quale sport la differenza di superficie stravolge completamente le caratteristiche di un atleta? Immaginatevi se le prestazioni di Cristiano Ronaldo dipendessero da come viene curato il prato di uno stadio. Ancora: in quale sport individuale regna un generale clima di “vogliamoci bene” in cui chi ha perso una finale Slam tra una lacrima e un’altra si congratula sinceramente con l’avversario? Senza competenza e professionalità si rischia di incappare in un buonismo pacchiano, stucchevole e non autentico – con il rischio di spingere i telespettatori alla fuga.

Infine il giornalista che si occupa di tennis sul piccolo schermo deve essere obiettivo. Sembra il segreto di Pulcinella, se non fosse che al giorno d’oggi sui social è facile dimenticarsi che esiste un’etica professionale. Il cronista che si trasforma in ultra o in vendicatore su Twitter non è attendibile. Non è autorevole. Soprattutto non è professionale. Esiste una linea sottile tra il commento sarcastico e pungente a mezzo web e la crociata personale nei confronti di quell’atleta che non ha risposto alla domanda scomoda nel 2017 e che per questo merita di essere crocifisso per ogni match perso e per ogni errore commesso fuori dal campo. Il giornalista che si occupa di tennis non è un giudice e non è un investigatore privato. Piuttosto deve un intrattenitore garbato e rispettoso e a volte, quando tutti si sperticano in commenti fuori luogo, deve saper rimanere in silenzio. In effetti, quando Simon e Garfunkel cantavano The sound of silence forse pensavano proprio al tennis.

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